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Da Anime Salve a Bartimeo: per la stessa ragione del viaggio, viaggiare

di Andrea Santantonio

Sono davvero strani gli incroci mentali che possono venire in mente, e diventano ancora più strani quando su una scrivania si ritrovano per caso insieme, una Bibbia e tutti i testi di De Andrè.

I molti che conoscono un minimo il cantautore genovese e un minimo la Bibbia, direbbero che è un accostamento a dir poco assurdo; quelli che conoscono molto bene De Andrè e un po’ la Bibbia, qualche idea se la farebbero pur venire; quelli che invece conoscono abbastanza bene sia l’uno sia l’altro, a leggere il solo titolo dell’articolo dovrebbero “brillare” gli occhi. 
Lungi da me l’essere blasfemo, ma in questi ultimi giorni mi sono trovato a vivere due esperienze in sembianza contrastanti, ma che in realtà mi hanno portato a quello che, in gergo matematico, si potrebbe definire come un minimo comune multiplo della mia vita.
Se da una parte la lontananza dall’esperienza “viva” di AC, mi ha portato a voler approfondire l’icona biblica dell’anno sul cieco di Gerico; dall’altra vi è un’attenzione, a volte quasi maniacale verso le parole e i testi, nell’ascoltare l’ultimo capolavoro di Faber, Anime Salve.
Ma la parte più surreale di questa premessa è che quello che fa combinare queste due ricerche, è senza dubbio l’esperienza di vita che conduco come studente fuorisede.

Guardando in questo enorme calderone, vorrei cominciare dalla lettura che ho dato dell’evangelista Marco. In modo particolare sono rimasto sbalordito davanti all’esperienza di solitudine che viveva il cieco Bartimeo.
Di sicuro il suo trovarsi sulla STRADA per Gerico, quindi in realtà non era né a Gerico né a Gerusalemme, doveva comportare l’essere lontano dai luoghi popolosi, dove si viene considerati. Era lontano, forse dal tempio e dalla religione, a causa della sua menomazione, o forse più semplicemente era lontano dagli altri, viveva una sua dimensione di solitudine, dalla quale non aveva motivo di uscirne, visto l’emarginazione che determinava la sua malattia. Intorno a sé, la sicurezza del suo mantello, l’unico oggetto che riusciva a delimitare un mondo che per lui era contemporaneamente senza limiti nell’immaginazione, ma limitato nella conoscenza.

E girando intorno alla solitudine di Bartimeo che comincio ad inoltrarmi nei testi del Faber, in modo particolare in quel concept disc che nella sua etimologia più spicciola, vuole proprio significare spiriti solitari, Anime Salve.Un disco in cui De Andrè va alla ricerca di tutte le esperienze di solitudine, dall’emarginazione (del transessuale in Prinçesa) alla solitudine volontaria (del pescatore in le Acciughe fanno il pallone). Tra la figura dell’emarginato e quella del solitario vi è la realtà di Khorakhané, che narra di una tribù rom, che vive la solitudine, secondo me, sia come un’emarginazione ma forse allo stesso tempo come un’esperienza voluta. Su questa ultima descrizione tornerò dopo.
Quello che mi fa riflettere in un primo momento è un’intervista che De Andrè rilascia in presentazione del disco, che condivido in pieno: “chi abita in solitudine è in genere molto più spiritualmente dotato di chi vive in branco. Sono i solitari ad essere capaci di gesti magnifici che ci portano, come dice Alvaro Mutis, a «consegnare alla morte una goccia di splendore». Chi non sa aiutare sé stesso, in genere, non sa aiutare gli altri.” 
Un po’ come succede a Bartimeo, una vita di solitudine, di riflessione che lo porta ad avere quella “speciale disperazione” che implode in sé stesso e si manifesta in due atteggiamenti a dir poco spiazzanti: da una parte l’andare in quella “direzione ostinata e contraria”, quella di voler andare incontro al Rabbunì nonostante la folla e i discepoli lo sgridassero e gli intimassero di tacere (Mc 10, 48); dall’altra, la maturità che esplode nel suo andare incontro al Nazareno, quella voglia di dire al mondo che nella fede in Cristo ha ritrovato sé stesso. 
E così come per De Andrè la solitudine non è un isolarsi, ma è una solitudine “buona”, è la premessa ad un incontro libero e maturo con gli altri, così per Bartimeo quel gettare il mantello e balzare verso Cristo, è il raggiungimento di quella maturità che lo porta a rientrare ad occuparsi degli altri, lasciando le certezze della sua intima solitudine, deciso nel seguire l’esempio del Nazareno e mettersi alla sua sequela. 

L’altro aspetto che mi colpisce è che Bartimeo non va alla ricerca di tolleranza, di accoglienza. Non vuole essere capito ed accettato per il fatto di essere diverso, di vivere un’esistenza diversa. Lui cerca la pietà, nel significato più cristiano del termine: «Gesù, abbi pietà di me!».
Quella pietà non intesa nel senso dispregiativo: la pietà cristiana non è quella che si chiede ad un potente di cui si teme la sua reazione, ma è quella che si basa sul rispetto, uguale a quello che si ha per una persona da cui sappiamo di essere amati.
E anche qui il parallelismo con Anime Salve è a dir poco straordinario. Penso che sia un album completamente basato sul concetto di pietà: è profonda quella che Fabrizio ha nei confronti di tutti gli emarginati che descrive nella sua discografia; mai visti con aria di superiorità e arroganza, ma sempre nel capirne le ragioni, nell’esaminarne i contenuti. E in realtà ho l’impressione che la pietà che prova verso queste realtà di solitudine, sia una sorta di ammirazione, perché in ciò che descrive vede la “signorina libertà” che tanto canta nelle sue poesie, né parla di rom e transessuali per cercare di convincere qualcuno a tollerarli o accoglierli.

Infine impressionante è la convinzione e la fede con cui Bartimeo va alla ricerca del Cristo: vuole guardare il mondo con occhi nuovi, con gli occhi dell’amore per il prossimo. Non c’è persona o folla che lo possa fermare, non c’è dubbio che lo può assalire quando Gesù gli domanda «Cosa vuoi che io ti faccia?». Lui è sicuro, convinto e determinato: «Che io riabbia la vista!». Come potrebbe essere altrimenti? Ha trovato, e la ragione del suo viaggio fino a quel momento, e la ragione per cui continuare a viaggiare. 
Non esita Bartimeo, riacquistata la vista cominciò a seguirlo per la strada. Quella strada che i rom di De Andrè hanno come “la stessa ragione del viaggio, viaggiare”.
Il Faber descriveva i rom come afflitti da quella che gli psicologi chiamano dromomania: la mania dello spostamento, del continuo viaggiare. D’altronde per loro il motivo del muoversi, dello spostarsi è lo stesso viaggiare. Loro che vogliono fare “dell’aria azzurra, la propria casa”, fanno del viaggio il loro punto di arrivo e di partenza, il loro continuo crescere, il mettersi in discussione, il ritrovare sé stessi.
E forse anche noi cristiani dovremmo essere affetti da dromomania: essere afflitti da quella voglia di metterci sempre in viaggio, di metterci alla scoperta del nostro viaggio, senza porci delle mete, perché il cercare di raggiungere le mete ci impone di fermarci. Gesù cammina, è itinerante, e l’unico modo che si ha per seguirlo è mettersi alla sua sequela per sempre.

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