di Francesca Palese
«Se dovessi fare un resoconto della mia vita, partirei da quella che per me è stata parte fondamentale del mio IO: la giustizia, d’altronde era anche il mio lavoro. Ricordo quasi come se fosse ieri, avevo appena compiuto 22 anni, quando mi laureai in Giurisprudenza. Tutti pensavano che io lo avessi fatto per mio padre, per seguire le sue orme, e forse è anche vero, ma ciò che più di tutto mi ha spinto a fare di me, Rosario Livatino, ciò che avevo sempre desiderato essere, è l’amore verso il mio paese, e la voglia matta di renderlo ancora più bello di quanto già non lo fosse.
Però quello che davvero mi ha spinto a provare ad essere un uomo libero è l’azione cattolica e i valori che questa ha impiantato in me, aiutandomi a comportarmi da vero cittadino, perché il compito del magistrato è quello di decidere. Decidere è scegliere e, a volte, scegliere fra numerose cose o strade o soluzioni; scegliere è una delle cose più difficili che l’uomo sia chiamato a fare, è proprio in questo scegliere per decidere, decidere per ordinare, che il magistrato credente può trovare un rapporto con Dio: un rapporto diretto, perché il rendere giustizia è realizzazione di sé, è preghiera, è dedizione di sé a Dio. Il sommo atto di giustizia è necessariamente sommo atto di amore se è giustizia vera, e viceversa se è amore autentico.
Forse per questi miei ideali pieni di vita, di forza e di rivoluzione che sono stato battezzato come il ‘giudice ragazzino’, solo perché avevo vinto un concorso come dirigente nel Registro dell’ufficio di Agrigento, ma come me ci sono stati mille e mille altri giovani che ci hanno provato. Ma comunque ciò non mi ha spaventato, io ho sempre continuato a testa alta, incoraggiando gli altri tramite l’esempio a fare la stessa cosa, e volte risultavo un sassolino nella scarpa, e come ogni sassolino dovevo uscire fuori. Ogni mattina salutavo i miei genitori, poi davo un’occhiata fuori dalla finestra, e preoccupato uscivo di casa, con un valigetta piena di documenti, scartoffie, giustizia, fede e coraggio. E comunque nonostante i mille pensieri che si accavallavano nella mia testa, portavo a termine i miei compiti, con attenzione al dettaglio, ero molto scrupoloso, e nonostante i pericoli incoraggiavo i lavoratori a non essere schivi, ma a essere liberi.
A 27 anni mi occupai di quella che fu la più delicata indagine antimafia a me assegnatami, ma anche di criminalità comune, la "Tangentopoli siciliana". Misi a segno numerosi colpi contro la Mafia, attraverso lo strumento della confisca dei beni e combattendo la corruzione in maniera molto forte. Ero venuto a conoscenza dei legami tra Mafia e la Massoneria, forse anche per questo ero considerato una persona scomoda.
Mi sono sempre ritenuto un uomo riservato, che faceva il suo lavoro nel modo corretto, senza grandi contatti con il pubblico. Tentavo di mettere al sicuro tutti coloro a cui volevo bene, perché percepivo la mia situazione, e non volevo che anche loro la percepissero.
Quella mattina del 21 settembre partii da casa, da Canicattì per andare ad Agrigento, il solito: bacio in fronte mia mamma, guardo fuori, esco solo. Ero in macchina, un’ altra auto si affianca alla mia, mi fa sbandare, provo ad accelerare. Non credo di aver mai provato rassegnazione. Scendo dall’auto comincio a correre, e dietro di me un uomo, inciampo, cado e lo supplico di risparmiarmi, un colpo alla tempia. Credo che in quegli istanti mi sia sentito un animale, si un sacrificio, la Stidda una branca di Cosa Nostra per affermare la proprio indipendenza mi ha ucciso due settimane prima del mio 38esimo compleanno. E comunque invito ancora gli uomini di questa organizzazione a convertirsi e a cambiare vita, in attesa, un giorno, del giudizio di Dio.
Quando moriremo, nessuno ci verrà a chiedere quanto siamo stati credenti, ma credibili!»